Dice menzogne chi afferma che la religione ci unisce.
E non è dalla parte del vero neppure chi sostiene che i drammi
degli altri ci accomunano nella commiserazione.
L’Italia, come sempre, è il Belpaese delle divisioni. Ci
si spacca sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche; ci si
riscopre moralisti o innovatori quando si parla della “pesantezza”
delle droghe. E, tra tanti problemi seri, figuriamoci se non troviamo
pure il tempo di surriscaldarci se il vicino di casa non la pensa come
noi sulla decisione del Cda della Rai di sospendere il programma della
Guzzanti.
Tra sacro e profano, tra serio e faceto, però, una tragedia ha
rilanciato lo spirito dell’Unità d’Italia. Un vile
attacco terroristico che ha sconvolto l’intero Paese e che ha preteso
un enorme contributo di sangue proprio dalla Sicilia. Diciannove morti
hanno fatto sentire nuovamente Nazione un popolo propenso alle divisioni,
come sempre, ma deciso a ritrovarsi rinsaldato davanti ai valori forti,
alla solidarietà. A quella fratellanza che ci spinge, con naturale
inconsapevolezza, a denunciarci migliori di quello che sembriamo.
Dodici carabinieri, cinque militari e due civili, anche loro inconsapevolmente,
si sono sacrificati per unire l’Italia. Eppure, erano partiti, a
compiere il loro dovere, per far sposare un popolo con la democrazia.
Per portare in quell’Iraq, martoriato da decenni di tirannia di
Saddam Hussein, la pace; per far conquistare ad un popolo l’opportunità
di vivere senza soccombere, giorno dopo giorno.
Hanno finito con l’unire il Belpaese e lo hanno fatto da terre lontane,
non solo fisicamente, ma dalle concezioni di chi, ancora oggi e soprattutto
oggi, si chiede cosa vadano a fare i nostri militari in quei luoghi che
non ci appartengono. In quelle logiche a noi lontane. In certe città
di cui solo adesso, tristemente, sappiamo pronunciarne il nome e di cui
soltanto adesso ne conosciamo la dislocazione. Ed è in una di queste,
a Nassiriya, che è rinato lo spirito unito degli italiani.
Due camion-bomba; probabilmente altrettanti kamikaze; una cinquantina
di feriti che si sommano ai morti. E fra questi ultimi, ben sette sono
siciliani. Sono il carabiniere scelto Horacio Majorana, 29 anni, di Catania;
l’appuntato Domenico Intravaia, 46 anni, di Monreale; il maresciallo
Alfio Ragazzi, 39 anni, di Messina; il vice brigadiere Giuseppe Coletta,
38 anni, di Avola; il maresciallo Giovanni Cavallaro, 47 anni, di Messina;
il caporal maggiore scelto Emanuele Ferraro, 28 anni, di Carlentini; il
vicebrigadiere Ivan Ghitti, 30 anni, originario di San Fratello.
Secondo Bernard Kerik, che per quattro mesi è stato ministro dell’Interno
in Iraq scelto dal presidente George W. Bush, questi valorosi italiani
sono stati colpiti dai terroristi per gli ottimi rapporti che avevano
instaurato con la popolazione irachena. Per il timore che gli “ex
schiavi” del regime del Rais potessero al più presto assaporare
il gusto dei valori democratici e, di conseguenza, potessero prendere
in mano il controllo dell’Iraq, a tutto svantaggio del terrorismo.
Una tesi che ci inorgoglisce come italiani ma che, probabilmente, non
costituirà una ragione di vita per i familiari di questi nostri
caduti.
Certo, ritirare le nostre truppe adesso, abbandonare l’Iraq al proprio
destino, senza avere portato a termine la missione di pace, sarebbe come
arrendersi. Vorrebbe dire vanificare il sacrificio di diciannove vittime
innocenti che hanno creduto nella propria opera e nel proprio dovere.
Significherebbe indietreggiare dinanzi alle minacce di vili fanatici;
rinnegare quel tricolore che ha avvolto diciannove bare mentre l’Italia
intera si è fermata in segno di lutto. Con bandiere a mezz’asta
in tutti gli edifici pubblici; con un minuto di silenzio nelle scuole,
negli uffici e persino alla Borsa Italiana; con le saracinesche dei negozi
abbassate e i palinsesti di televisioni pubbliche e private stravolti
e che hanno anche abolito alcune fasce pubblicitarie.
Fiumi di lacrime e d’inchiostro sono stati versati per ricordare,
raccogliere e descrivere le storie di questi giovani militari cresciuti
in tempo di pace e uccisi da quel terrorismo straniero che non ha dato
loro la possibilità di elaborare la consapevolezza di essere in
guerra. Una guerra che questi giovani martiri hanno vinto. Anche se fallisse,
e non ce lo auguriamo, il disegno di pace per il quale si sono mobilitate
le forze alleate. Una guerra, un sacrificio che ha unito, come mai negli
ultimi decenni, il nostro Paese.
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