Ho inseguito quotidianamente (ma forse fino ai vent'anni poi, inutilmente,
ho cercato di tirare le redini del tempo…) l'attimo in cui avrei scritto "i miei
primi quarant'anni". Non ambivo certo a parafrasare o a copiare in alcun modo
la bella e voluttuosa Marina Ripa di Meana, già autrice in tal senso. Ma cercavo
soltanto di immaginare, ancora ragazzo, se e come sarei arrivato agli "anta" che
mi avrebbero proiettato proprio all'alba del nuovo millennio. Allora, ricordo,
si parlava di fantascienza, di incontri con gli extraterrestri, di marziani che
sarebbero venuti ad invadere il nostro pianeta. E ci si chiedeva cosa avrebbero
portato: distruzione e morte o progresso e fratellanza. Certo, comunque, il terzo
millennio ci avrebbe insegnato molte cose. "I miei primi quarant'anni" hanno visto
un'alba uggiosa. Ed il tempo non sembra prospettare il sereno. Mai e poi mai nessuno
avrebbe pensato che con il 2001 sarebbero entrati nell'uso quotidiano termini
poco noti come carbonchio o antrace. Bisogna farsi una cultura, è vero. Ma credo
che tutti avremmo preferito conoscere altri vocaboli e vivere film virtuali piuttosto
che terrificanti realtà. Fa un certo effetto aprire gli occhi, svegliarsi, e trovare
l'incubo. E, subito, analizzare se lo stai vivendo o lo stai sognando. Poi, diventa
traumatico rendersi conto che la realtà supera ogni steccato della più fluida,
seppur inconscia, immaginazione. Vivere come in un film. Ma, stavolta, vero, concreto,
agghiacciante. Un flash mi ha svegliato dalla pur breve pennichella pomeridiana,
rigidamente goduta con la televisione accesa. Quel lampo arrivava proprio
dal piccolo schermo che annunciava una tragedia infinitamente grande per il mondo.
Gli occhi ancora socchiusi si sono sgranati d'improvviso. Ma l'immagine di un
aereo di linea che si schianta contro una delle due torri gemelle di New York
mi sembra ancora un "disastro" surreale. Ho appena 18 minuti per rendermi conto
che non sto sognando. Giusto il tempo di rivedere la scena. Anzi, no. È un nuovo
"disastro". E stavolta realizzo che non sto sognando. Che i miei occhi sono davvero
spalancati sul mondo. Ma quale? Probabilmente quello dei film. Già non può essere
altro. Sarà certamente un film. Ora ricordo, probabilmente "Indipendence day".
O, forse, si tratta di una riedizione di "Star Wars". Sono lento a capire che
ho appena assistito "in diretta" ad un attacco terroristico all'America. Ad una
sfida al mondo. Alla strategia della destabilizzazione. Forse siamo stati tutti
un po' lenti a percepire cosa ci stava accadendo attorno. Primi fra tutti, coloro
che erano e sono preposti alla sicurezza degli States e dell'intero pianeta. L'F.B.I.
e la C.I.A., ignoranti dell'esistenza di un "esercito" di kamikaze che da mesi,
probabilmente da anni, si stava addestrando per portare a compimento un attentato
senza precedenti. Migliaia d'agenti segreti, d'infiltrati, tutta l'intelligence
americana, non sono stati sufficienti a percepire movimenti e minacce che arrivavano
dagli estremisti. Arroganza, spocchia, la convinzione d'essere troppo forti per
subire un attacco al cuore economico-militare e delle istituzioni. O forse qualcosa
di più… E che dire dei tempi di "reazione" del Pentagono. Più aerei dirottati
contemporaneamente; uno si scaglia contro il primo grattacielo a Manhattan; altri,
con improvvise virate fuori rotta, si dirigono su obiettivi strategici dando anche
il tempo ai passeggeri di chiamare parenti ed amici col cellulare per segnalare
quanto sta accadendo e lanciare l'ultimo saluto. E dal massimo organismo di difesa
della maggiore potenza militare del mondo non scatta la reazione immediata che
impedisce ad un altro aereo di "sventrare" il secondo grattacelo di Manhattan;
18 minuti, tra il primo ed il successivo schianto contro le due torri. Tanti
ne sono passati di minuti, affinché io capissi che vivevo una cruenta realtà anziché
un sogno. Tanti ne sono bastati di minuti per denunciare l'imperdonabile sonnolenza
dei vertici militari americani. Lo schiaffo alla "difesa mondiale", con il terzo
aereo sul Pentagono a Washington ha completato il quadro dell'inefficienza. Un
quarto aereo, forse diretto contro la casa Bianca, certamente contro Bush, si
schianta prima di raggiungere qualunque altro bersaglio. Non si saprà mai, quasi
certamente, se i caccia statunitensi hanno trovato un'impennata di reattività
per levarsi in volo… o se i passeggeri a bordo di quest'altro aereo di linea si
sono sacrificati, da eroi, per annientare i terroristi… Certo, adesso, non è il
nodo principale da sciogliere. Ora è tempo di svegliarsi dal letargo e di guardare
in faccia la realtà. Le migliaia di morti americani devono far riflettere, occorre
che ci uniscano. Tutti, ad ogni livello ed in ogni angolo del mondo. I tre minuti
di religioso silenzio che sono stati rispettati tre giorni dopo il vile attentato
dell'11 settembre scorso, rilanciano il senso di solidarietà. È il caso di agire
sinergicamente, senza alcun tipo di tentennamento che può apparire strumentale.
Non solo. Ma che può dar adito a segnali di fratture e debolezze. Patologie che
alimentano anche devianze estreme come il terrorismo. Non facciamoci, però, trascinare
soltanto da emozioni forti e d'impatto. Da tragedie immani e violente. La quotidianità,
è vero, ci offre sofferenze altrettanto atroci. Basta solo guardarla, scrutarla
con gli occhi sgranati. Per capire che, in molti angoli di mondo, c'è chi vive
la quotidianità di un incubo. Oggi, i vocaboli del tipo carbonchio e antrace o
il nome talebano sono di uso comune e fanno paura. Ma non sono quelli che volevamo
apprendere come fondamentali del terzo millennio. Quanto vorremmo incontrare i
marziani… |