ventitreesima edizione

2) L'Annuario

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Editoriale

La squadra antiracket

di Sergio Regalbuto

Non si respira più soltanto profumo di zagara e le tinte dell’arcobaleno, adesso, sembrano campeggiare perennemente, anche nei giorni di tempesta, sulla nostra amata Isola di Sicilia. C’è un’aria più salubre, da un mese a questa parte, e la voglia di assaporare il gusto della libertà. Quella che si conquista con la ribellione ai soprusi, spinta dal vento del coraggio che, finalmente, comincia a soffiare forte.
Il 5 novembre scorso rappresenta un’altra tappa storica per il riscatto della Sicilia: i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo non figurano più nella lista dei superlatitanti di mafia. Hanno finito di tartassare imprenditori e commercianti con le loro estorsioni; non hanno più la possibilità di riciclare le ingenti somme di denaro tolte al sudore della gente onesta per investirle in attività apparentemente legali intestate a prestanome.
Quest’altra fatidica data, forse più delle altre, accende nella gente la miccia della dignità, della consapevolezza di dover alzare la testa e guardare negli occhi, in aperta sfida e forti di non essere più soli, i criminali che vogliono soffocare un’intera regione. Una data che innesca il meccanismo del “non ritorno”. Almeno questo è ciò che si augura la società civile onesta siciliana, che rappresenta l’ampia maggioranza del nostro popolo. E i segnali ci sono tutti per proseguire su questa strada senza mai più invertire la rotta.
Il 21 gennaio del 2005 Confindustria e Associazione nazionale magistrati organizzarono a Palermo un convegno per parlare del fenomeno racket, ma nessun imprenditore partecipò e il teatro Biondo, scelto come sede, rimase vuoto. Dopo quasi tre anni, nel novembre scorso, lo stesso luogo era irriconoscibile, colmo fin su al loggione; affollato da esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria e da tanti giovani che pretendono una Sicilia migliore. Quei giovani, e non solo loro, che tre anni addietro tappezzarono Palermo con gli adesivi con su scritto “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Sono i ragazzi di “Addiopizzo”, l’associazione nata con soli sette elementi e che oggi vanta pure la benedizione di Confindustria che esorta gli industriali a sostenerla.
A sedici anni dall’omicidio di Libero Grassi, l’imprenditore che si ribellò al pizzo imposto dai boss mafiosi e per questo venne ucciso nel silenzio degli industriali, la “squadra antiracket” scende in campo con la migliore formazione: le forze dell’ordine catturano gli estorsori, la magistratura li condanna, la Chiesa li accusa, la società civile si ribella.
L’ultima sentenza antimafia è stata esemplare contro i tre imputati colpevoli di avere imposto il pizzo ai titolari della storica focacceria San Francesco di Palermo: complessivamente, quarant’anni di carcere e quasi centomila euro di risarcimento. Ma non soddisfa soltanto l’entità della condanna quanto i tempi rapidi della giustizia ed il nuovo contesto ambientale che si registra in tutta la Sicilia. A Palermo Vincenzo Conticello difende la sua focacceria; a Catania l’imprenditore Andrea Vecchio, con la sua denuncia ed il suo rifiuto a piegarsi al racket delle estorsioni, diventa simbolo dell’antimafia come lo è già Tano Grasso presidente della Federazione nazionale antiracket. In tutta l’isola Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, ormai guida la ribellione e, commentando la sentenza di Palermo, parla di “punto di partenza e non di arrivo. Da qui – dice – la società civile può rinascere”.
A trent’anni dalle omelie del cardinale Pappalardo sul “peccato di mafia”, l’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo tuona contro il “peccato di racket” e si mostra intransigente contro i malavitosi che ostentano la Bibbia o immaginette sacre: “Il mafioso segue una religione “fai da te” - dichiara il presule - prendendo dalla Bibbia solo quello che gli serve e ciò che non gli conviene lo mette da parte”.
La società civile si aggrega, ha capito che questo è un momento storico per minare la mafia alle radici. Nasce l’associazione antiracket “Libero futuro”, quaranta soci, la prima che si riesce a fondare nel capoluogo siciliano a sedici anni dall’uccisione di Libero Grassi.
Ma, soprattutto, matura la convinzione che non si è più soli contro il racket. Che non è sconfitto, non ci illudiamo, ma colpito duramente sì. Il colpo di grazia lo potrà dare soltanto un’azione continua ed incisiva nel tempo, che si basi ancora sulla presa di posizione di imprenditori, commercianti, della Cei, dell’associazionismo, dei tanti giovani che si mobilitano contro la mafia. E, ovviamente, la decapitazione potrà avvenire con gli altri arresti, siano essi eccellenti o di manovalanza.
Sullo schermo dell’affollato teatro Biondo di Palermo scorreva una frase, ad alimentare maggiormente la speranza dei siciliani onesti. Una frase dell’autore Goethe, icona per eccellenza della cultura tedesca: “La paura bussò alla porta, il coraggio aprì, non c’era nessuno. Era il coraggio di un intero popolo”.
Quel popolo siciliano che, oggi più che mai, vuole camminare a testa alta; con le narici allargate per riempire i propri polmoni di profumo di zagara; e con gli occhi sgranati, per ammirare un arcobaleno dalle tinte forti.