L'Annuario
Editoriale
La squadra antiracket
di Sergio Regalbuto
Non si respira più soltanto profumo di zagara e le tinte
dell’arcobaleno, adesso, sembrano campeggiare perennemente,
anche nei giorni di tempesta, sulla nostra amata Isola di Sicilia.
C’è un’aria più salubre, da
un mese a questa parte, e la voglia di assaporare il gusto della
libertà. Quella che si conquista con la ribellione ai
soprusi, spinta dal vento del coraggio che, finalmente, comincia a
soffiare forte.
Il 5 novembre scorso rappresenta un’altra tappa storica per
il riscatto della Sicilia: i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo non
figurano più nella lista dei superlatitanti di mafia. Hanno
finito di tartassare imprenditori e commercianti con le loro
estorsioni; non hanno più la possibilità di
riciclare le ingenti somme di denaro tolte al sudore della gente onesta
per investirle in attività apparentemente legali intestate a
prestanome.
Quest’altra fatidica data, forse più delle altre,
accende nella gente la miccia della dignità, della
consapevolezza di dover alzare la testa e guardare negli occhi, in
aperta sfida e forti di non essere più soli, i criminali che
vogliono soffocare un’intera regione. Una data che innesca il
meccanismo del “non ritorno”. Almeno questo
è ciò che si augura la società civile
onesta siciliana, che rappresenta l’ampia maggioranza del
nostro popolo. E i segnali ci sono tutti per proseguire su questa
strada senza mai più invertire la rotta.
Il 21 gennaio del 2005 Confindustria e Associazione nazionale
magistrati organizzarono a Palermo un convegno per parlare del fenomeno
racket, ma nessun imprenditore partecipò e il teatro Biondo,
scelto come sede, rimase vuoto. Dopo quasi tre anni, nel novembre
scorso, lo stesso luogo era irriconoscibile, colmo fin su al loggione;
affollato da esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria
e da tanti giovani che pretendono una Sicilia migliore. Quei giovani, e
non solo loro, che tre anni addietro tappezzarono Palermo con gli
adesivi con su scritto “Un popolo che paga il pizzo
è un popolo senza dignità”. Sono i
ragazzi di “Addiopizzo”, l’associazione
nata con soli sette elementi e che oggi vanta pure la benedizione di
Confindustria che esorta gli industriali a sostenerla.
A sedici anni dall’omicidio di Libero Grassi,
l’imprenditore che si ribellò al pizzo imposto dai
boss mafiosi e per questo venne ucciso nel silenzio degli industriali,
la “squadra antiracket” scende in campo con la
migliore formazione: le forze dell’ordine catturano gli
estorsori, la magistratura li condanna, la Chiesa li accusa, la
società civile si ribella.
L’ultima sentenza antimafia è stata esemplare
contro i tre imputati colpevoli di avere imposto il pizzo ai titolari
della storica focacceria San Francesco di Palermo: complessivamente,
quarant’anni di carcere e quasi centomila euro di
risarcimento. Ma non soddisfa soltanto l’entità
della condanna quanto i tempi rapidi della giustizia ed il nuovo
contesto ambientale che si registra in tutta la Sicilia. A Palermo
Vincenzo Conticello difende la sua focacceria; a Catania
l’imprenditore Andrea Vecchio, con la sua denuncia ed il suo
rifiuto a piegarsi al racket delle estorsioni, diventa simbolo
dell’antimafia come lo è già Tano
Grasso presidente della Federazione nazionale antiracket. In tutta
l’isola Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia,
ormai guida la ribellione e, commentando la sentenza di Palermo, parla
di “punto di partenza e non di arrivo. Da qui –
dice – la società civile può
rinascere”.
A trent’anni dalle omelie del cardinale Pappalardo sul
“peccato di mafia”, l’arcivescovo di
Palermo Paolo Romeo tuona contro il “peccato di
racket” e si mostra intransigente contro i malavitosi che
ostentano la Bibbia o immaginette sacre: “Il mafioso segue
una religione “fai da te” - dichiara il presule -
prendendo dalla Bibbia solo quello che gli serve e ciò che
non gli conviene lo mette da parte”.
La società civile si aggrega, ha capito che questo
è un momento storico per minare la mafia alle radici. Nasce
l’associazione antiracket “Libero
futuro”, quaranta soci, la prima che si riesce a fondare nel
capoluogo siciliano a sedici anni dall’uccisione di Libero
Grassi.
Ma, soprattutto, matura la convinzione che non si è
più soli contro il racket. Che non è sconfitto,
non ci illudiamo, ma colpito duramente sì. Il colpo di
grazia lo potrà dare soltanto un’azione continua
ed incisiva nel tempo, che si basi ancora sulla presa di posizione di
imprenditori, commercianti, della Cei, dell’associazionismo,
dei tanti giovani che si mobilitano contro la mafia. E, ovviamente, la
decapitazione potrà avvenire con gli altri arresti, siano
essi eccellenti o di manovalanza.
Sullo schermo dell’affollato teatro Biondo di Palermo
scorreva una frase, ad alimentare maggiormente la speranza dei
siciliani onesti. Una frase dell’autore Goethe, icona per
eccellenza della cultura tedesca: “La paura bussò
alla porta, il coraggio aprì, non c’era nessuno.
Era il coraggio di un intero popolo”.
Quel popolo siciliano che, oggi più che mai, vuole camminare
a testa alta; con le narici allargate per riempire i propri polmoni di
profumo di zagara; e con gli occhi sgranati, per ammirare un arcobaleno
dalle tinte forti.