L'Annuario
Opinione
"Autonomia e identità per superare in Sicilia la crisi della politica"
di Nello Musumeci
C’è in Italia una nuova ansia autonomistica, che emerge dalla società, dal corpo elettorale e che costituisce, da qualche tempo, tema di appassionato dibattito all’interno delle forze politiche del centrodestra.
Il fenomeno, naturalmente, non ha nulla a che vedere con i fermenti autonomistici che già alla fine della seconda guerra mondiale, in Italia, mobilitarono masse di cittadini, o, comunque, minoranze attive sul piano della militanza, fino a degenerare nella guerriglia e in velleitari tentativi secessionistici.
Da cosa nasce questo nuovo spirito autonomistico? Essenzialmente da due esigenze, avvertite in maniera diversa dagli elettori e dai quadri intermedi dei partiti nazionali, ma riconducibili ambedue alla crisi del modello tradizionale delle forze politiche. È, insomma, la reazione ad un sistema partitico rigido, ormai inadeguato a dare risposte, in termini di rappresentazione e di partecipazione interna. Partiti centralisti che non riescono ad elaborare strategie politiche e programmatiche adatte alle esigenze del territorio. C’è, innanzitutto, fra gli elettori, il bisogno di tutelare identità culturali specifiche, interessi del territorio che molto spesso appaiono “sacrificati” rispetto ad obiettivi generali non condivisi e non sentiti. Per mezzo secolo, le élite politiche romane hanno potuto garantire, in Sicilia, le posizioni di vantaggio istituzionale tradizionalmente detenute, riuscendo a gestire le tensioni sociali e politiche. Gli stessi stimoli esterni al cambiamento, provenienti dalla periferia, sono stati finora mediati, filtrati e interpretati dai processi decisionali interni ai partiti “centralizzati”.
Insomma, malgrado la concessione dello Statuto speciale e la recente introduzione dell’elezione diretta del governatore, i partiti a struttura nazionale danno la sensazione di ignorare il contesto socio-economico delle realtà periferiche, il loro passato, la loro specificità. Il cittadino avverte, così, una crisi d’identità dell’offerta politica romana in relazione ai bisogni e alle necessità della Regione in cui ha scelto di vivere e operare. Crisi maggiormente percepita nei territori con grave ritardo di crescita socio-economica. Ritardo spesso imputato alla scarsa attenzione dei partiti a struttura centralizzata, giudicati incapaci di adeguare i propri programmi ai mutamenti intervenuti nel frattempo nell’economia e nella società periferica e, quindi, regionale. Ecco perché l’astensionismo va letto in Sicilia come una reazione alla crisi del sistema politico-partitico italiano, che fa mancare punti di riferimento e crea un vuoto di rappresentanza.
Appare dunque chiaro che la nascita di movimenti autonomisti tende a dare una risposta adeguata al crescente rigetto della gente verso i partiti tradizionali. Le nuove proposte verrebbero percepite come più partecipative e ricettive delle preferenze dei cittadini ed ancora come alternativa alla defezione degli elettori, che può degenerare in disaffezione, con l’astensionismo o la protesta.
Il bisogno di regionalizzazione resta strettamente legato al deficit di democrazia presente all’interno dei partiti politici, specie in relazione al reclutamento e alla selezione della classe dirigente e della rappresentanza parlamentare.
Non sfugge a nessuno, infatti, come l’introduzione del sistema elettorale uninominale maggioritario di fatto abbia determinato la “nomina” del parlamentare e non più la sua “elezione”, come avveniva in un contesto competitivo tra altri candidati. E poiché il potere di decidere la candidatura nel collegio è sempre detenuto dalla ristretta oligarchia del partito, la base finisce col “subire” scelte mai proposte e, soprattutto, spesso non condivise.
Dovrebbe apparire chiaro che le forze politiche legate a un modello scarsamente partecipativo e decentralizzato non aiutano ad avvicinare i cittadini. Se gli elettori si allontanano sempre più dai partiti (e le recenti consultazioni suppletive lo hanno ampliamente confermato) è dovuto anche alla percezione della chiusura e dell’incapacità di ascolto di questi ultimi.
Sarà importante capire fino a che punto le forze moderate vorranno spingersi verso una struttura su base regionale. E capire, inoltre, come la voglia di autonomia dai partiti nazionali possa rendersi compatibile col processo del partito unitario che si intende avviare nei due schieramenti. Nè può essere sottovalutata la possibilità che la mancata risposta alla diffusa domanda di regionalizzazione proveniente dalla periferia possa dar vita a nuove forme organizzative, impegnate a intercettare consensi nell’area moderata, sottraendoli essenzialmente ai partiti dell’alleanza. In quel caso, diventerebbe inevitabile studiare anche soluzioni adeguate per arrivare ad un “patto federativo” con partiti omogenei nazionali, secondo il modello della Csu bavarese o del Cyu catalano.
Che in Italia, e nel Mezzogiorno in particolare, ci sia una larga fascia di elettorato che mostra una scarsa identificazione con i partiti tradizionali è ormai fin troppo evidente. Non sapere o non volere trovare la risposta giusta a questo diffuso malessere sarebbe miopia politica che nessuno potrebbe permettersi in un contesto denso di inquietudini e incertezze.