L'Annuario
Economia
Nuovi tycoon o rampolli presuntuosi?
di Rino Lodato
La “trappola” in cui è rimasto invischiato Lapo Elkann, uno dei rampolli più invidiati d’Italia, ha riproposto due interrogativi: a che punto è arrivata la droga e quanto i giovani rampolli del capitalismo italiano sono o saranno in grado di prendere il posto dei padri o, addirittura, dei nonni al comando della nave. Si dice che i ricchi si drogano per “trasgressione”; i più poveri per “evadere” dalla monotonia. Ma in questa sede non vogliamo fare un discorso sociologico. Puntiamo, invece, al mondo della finanza italiana, ai suoi problemi, ai suoi capricci, alle sue realizzazioni. Ma soprattutto ai rampolli del capitalismo.
Si parte dal febbraio 2000, dalla scomparsa di Enrico Cuccia, il presidente di Mediobanca che non finiremo mai di rimpiangere, se mai il rimpianto potrà aiutare a superare questi momenti di crisi, nell’attesa di tempi migliori. Ma nell’ambiente della grande finanza non c’è spazio per i sentimentalismi e i rimpianti servono solo a far innervosire più del dovuto.
Finiti i tempi di Enrico Cuccia, di Gianni Agnelli, Leopoldo Pirelli, Luigi Orlando, Carlo Pesenti, Pietro Marzotto, Raoul Gardini (e la famiglia Ferruzzi), ci si attendeva l’entrata in scena dei figli e/o dei nipoti. E, in qualche caso, è accaduto. Ma vedremo con quali risultati.
Ci aspettavamo la carica dei giovani, guidati magari da Matteo Colaninno, l’attuale presidente dei giovani industriali. E, invece, da una sorta di immobilità dell’economia italiana, saranno gli immobiliaristi a smuovere le acque. Ed ecco venir fuori quelli che sarebbero stati definiti, fra l’altro, i furbetti del quartierino: sono i Ricucci, i Coppola, i Toti, gli Statuto. Che costruiscono, comprano e vendono case. Ma, allo stesso tempo, vanno a caccia di banche e giornali. Vogliono Banca Antonveneta, entrano nel salotto buono della Capitale attraverso l’acquisto di quote di Banca di Roma (Ricucci? Chi è costui?, disse Cesare Geronzi, presidente di Capitalia). E forse fin qui nessuno avrebbe trovato da ridire. Sennonché i signori immobiliaristi puntarono gli occhi e le velleità nei confronti nientemeno del Corriere della Sera, E no, l’accoppiata banche-editoria no. Troppo pericolosa. Iniziano le inchieste e le intercettazioni telefoniche che finiscono con il coinvolgere il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, con i risvolti noti.
Tutti, o quasi, danno addosso a Fazio, ne chiedono le dimissioni, ma il governatore tira dritto. Alle spalle dei Ricucci sembra esserci un castello di poco cemento e molta sabbia che comincia a vacillare. Come doveva essere fin dall’inizio, la Banca Antonveneta finisce nelle mani della banca olandese Abn-Amro, i titoli di Ricucci, posti a garanzia di esposizioni bancarie, sono venduti, con buona pace dei pattisti di Rcs, sempre più blindati, dal momento in cui si capì che Ricucci e compagni volevano farne parte.
La storia degli immobiliaristi che volevano andare lontano, forse, si ferma qui. E tornano alla ribalta i giovani imprenditori, i figli e/o nipoti.
Ed eccoci a Capri, dove si svolge il convegno dei giovani industriali. All’Hotel Quisisana c’è il presidente Matteo Colaninno, per nulla preoccupato di dover aprire i lavori e, soprattutto, chiuderli alla presenza del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
Approva la finanziaria Matteo Colaninno, così come qualche giorno prima aveva fatto Luca Cordero di Montezemolo. L’approva ma con qualche distinguo che conviene ricordare. Dice: “Rimangono in ombra il Mezzogiorno, che avrebbe bisogno di un fisco differenziato da negoziare in sede europea, e le Regioni, la cui dotazione finanziaria viene ridotta, a fronte delle consistenti competenze istituzionali in materia di sviluppo previste dal titolo quinto. E ancora: “Se si vuole garantire una credibilità internazionale e lo sviluppo del paese, serve rigore sui conti pubblici, evitando il ricorso ai condoni e alle una tantum perché c’è la sensazione che il paese si possa avvicinare ad un punto di non ritorno. La ricetta è una sola, puntare al rilancio”.
Veramente tosto questo figlio di Roberto Colaninno. Ma, per tornare all’inizio, gli altri rampolli che fanno?
Detto di Lapo Elkann (cura il brand della Fiat), vediamo prima quelli che si sono quasi disinteressati del lavoro dei padri: il figlio di Pirelli era attratto dallo studio dei pesci anziché dalla gomma, quello di Gianni Agnelli preferiva le filosofie orientali ai motori e quello di Pietro Marzotto si era messo a fare il cantante, senza fortuna, partecipando anche a un Festival di Sanremo per poi sparire. Pezzi di industria italiana si trasferiscono all’estero. Luigi Lucchini, il re delle acciaierie, “dopo aver tentato a lungo di resistere contro la cattiva sorte e contro i debiti” nel febbraio 2005 ha dovuto gettare la spugna e cedere le acciaierie ai russi. In dieci anni di gestione Andrea Merloni, figlio di Vittorio, ha tentato di rivitalizzare un marchio che tribolava dagli anni ’70. Alla fine il buon senso ha suggerito di passare la mano. Una scelta non scontata, visto che nel nostro capitalismo familiare, sono molte le aziende affidate alla velleità di rampolli che si sono trasformate in buchi neri (su tutti, Parmatour, gruppo Parmalat della famiglia Tanzi; Stefano era consigliere di amministrazione).
Significa che nessuno è in grado di portare avanti i discorsi dei padri o nuovi discorsi? Niente affatto. Esempi positivi ce ne sono. Alessandro Benetton ha ottenuto ottimi risultati con la merchant bank del gruppo “21 Investimenti”. Un risultato che il quarantunenne figlio di Luigi Benetton si appunta sulla giacca proprio mentre dentro e fuori in famiglia (naturalmente mentre scriviamo) i riflettori sono puntati sul suo futuro da leader nel gruppo di Ponzano e sulla staffetta con il padre.
E le donne? Meglio degli uomini, in taluni casi. E vengono in mente Azzurra Caltagirone, Marina Berlusconi, Jonella Ligresti, Rosella Sensi, Emanuela Barilla. E a proposito di Barilla, vanno citati Guido, presidente del gruppo e i fratelli Luca e Paolo, vice presidenti.
Nel settore editoria, ruoli di sempre maggior rilievo hanno i due fratelli Berlusconi. Marina e Piersilvio hanno fatto il loro apprendistato sotto le ali protettive di Fedele Confalonieri e di Franco Tatò. Il ruolo di Marina (che Fortune definì una delle 10 donne manager più importanti del mondo) cominciò a diventare sempre più determinante a partire dal 1998, quando riuscì ad impedire al padre di vendere Mediaset a Murdok per la bella cifra di settemila miliardi. La chiamano la “zarina” per come detta legge anche al padre.
Azzurra Caltagirone dirige il gruppo editoriale che pubblica Il Messaggero e Il Mattino ed è stata l’ideatrice del giornale distribuito gratuitamente “Leggo”.
Jonella Ligresti, figlia di Sicilia (com’è noto il papà Salvatore è di Paternò) prima ancora di laurearsi è entrata in Sai, la compagnia di assicurazioni che fu del gruppo Fiat e che, recentemente, si è fusa con La Fondiaria Assicurazioni creando il colosso Fonsai. La presidenza della Sai fu affidata a Jonella dopo un consiglio di famiglia in cui il padre e i fratelli le hanno lasciato le redini della compagnia di assicurazioni. Jonella è anche un’amazone provetta ed è la prima donna ad essere entrata nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, la banca d’affari milanese.
«Si è concluso tutto a Parigi, nell’arco di 24 ore. Dopo 11 anni, abbiamo finalmente riportato Cassina in Italia dalla Francia». Matteo Cordero di Montezemolo, membro senior del team Charme, commentava così il 24 maggio scorso l’acquisizione del marchio Cassina da parte del fondo di private equity, a cui fa capo Poltrona Frau group (Poltrona Frau, Cappellini, Thonet e Gufram). Cassina è diventato famoso per i prodotti culto, d’autore (come le creazioni di Le Corbusier e Charles Macintosh, e di Vico Magistretti e Philippe Starck). Attraverso la società di investimenti Charme, il figlio del neopresidente della Confindustria, si è anche aggiudicato il controllo della Ballantyne. «Per rivoluzionarla».
Dopo i grandi nomi e nonostante tanti bravi figli, il capitalismo italiano è, però, costretto a reinventare se stesso.
Le teorie esposte nel «Principe» di Machiavelli hanno insegnato a preparare i rampolli del capitalismo, ma nell’opera manca un aggiornamento, quello relativo al terzo millennio, dove i principi hanno perso la corona.
La trasformazione del nostro capitalismo e il mantenimento del controllo degli asset strategici hanno bisogno di risposte di sistema. E qui le idee continuano a mancare in maniera desolante. E non saranno certo Ricucci e compagni a trovare la soluzione ideale. •